Aggiornato al 13 febbraio 2021
Il brano denuncia la situazione critica delle carceri italiane negli anni Ottanta e la sottomissione dello Stato al potere della criminalità organizzata, attraverso il racconto dell'interazione tra Pasquale Cafiero, brigadiere dell'allora Corpo degli Agenti di Custodia del carcere di Poggioreale, e il boss camorrista "don Raffaè" che si trova incarcerato in tale struttura (personaggio che dà il titolo al brano). L'agente di custodia, sottomesso e corrotto dal potente malavitoso, gli offre speciali servigi (come, ad esempio, fargli la barba), gli chiede diversi favori personali (come il prestito di un cappotto elegante da sfoggiare a un matrimonio o la ricerca di un lavoro per il fratello disoccupato da anni, se lo ingrazia con molti complimenti e gli offre ripetutamente un caffè, del quale esalta la bontà. Il testo evidenzia anche, con ironia, quanto il boss all'interno del carcere conduca una vita agiata e di privilegi.
Lo stesso Cutolo pensò che la canzone fosse ispirata alla sua persona e scrisse al cantautore genovese per chiedere conferma in merito e per complimentarsi con lui, meravigliandosi tra l'altro di come De André fosse riuscito a cogliere alcuni aspetti della sua personalità e della sua vita carceraria senza averlo mai incontrato. De André rispose alla lettera di Cutolo solo per ringraziarlo, lasciandolo libero di pensare che "don Raffaè" fosse davvero lui o meno, ed evitò di proseguire il carteggio quando il malavitoso gli inviò una seconda missiva.


Un giudice è un 45 giri del cantante italiano Fabrizio De André, pubblicato nel novembre 1971 da Editori Associati come unico singolo estratto dall'album Non al denaro non all'amore né al cielo.
Il brano è tratto dalla storia di Selah Lively, un uomo da sempre deriso e vittima di malelingue a causa della sua bassa statura (nella poesia 5 piedi e 2 pollici, cioè 157,48 cm, nella canzone più semplicemente "un metro e mezzo" [12]) il quale, studiando giurisprudenza "nelle notti insonni vegliate al lume del rancore" [12], diventa giudice e si vendica della sua infelicità attraverso il potere di giudicare e condannare ("giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male" [12]), incutendo timore a coloro che prima lo irridevano. La storia si conclude con il giudice che "nell'ora dell'addio" [12], cioè in punto di morte, si inginocchia al cospetto del Sommo Giudice, "non conoscendo affatto la statura di Dio" [12]. Grande importanza anche qui, come in Un matto, riveste il tema dell'invidia come motore dell'agire del personaggio; in questa canzone De André mostra come il giudizio altrui possa creare disagio e sconforto. Il giudice, definito iperbolicamente nano da De André, diventa una carogna per il semplice fatto che gli altri sono sempre stati carogne con lui; se l'invidia provata dal matto era accompagnata in vita da un senso d'impotenza, quella del giudice trova invece nella vendetta l'unico sfogo possibile.


Quì interpretata da: Botticelli Rocco.
Il brano narra di un anziano pescatore, che vede sopraggiungere
dinanzi a lui un assassino spaventato in fuga: costui gli chiede "pane" e "vino" per poter essere saziato. Il pescatore gli fornisce il richiesto, senza "neppure guardarsi intorno" e l'assassino si dilegua. Sopraggiungono poi dei gendarmi in cerca del fuggiasco e chiedono al pescatore se ne ha notato il passaggio. Ma il pescatore simula di dormire, facendo trasparire un sorriso e non dando indicazioni.
Nel 1978 il brano fu riproposto in un 45 giri in cui il lato B era Carlo Martello; la ristampa fu realizzata con le vecchi matrici rispettivamente del 27 novembre 1970 (Lato A) e Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers nella versione del 1967.
Nella sua versione originale, si tratta di un brano acustico, dove De Andrè canta accompagnato semplicemente da una chitarra acustica, un basso e brevi fraseggi di una chitarra solista. Il ritornello del brano è costituito da una melodia fischiettata, senza testo.
La versione proposta è stata arrangiata dalla PFM è registrata dal vivo al teatro tenda di Firenze e Bologna il 13, 14, 15, 16 gennaio 1979.


Arrangiamento ed Interprete Botticelli Rocco
Bocca di Rosa è una canzone scritta da Fabrizio De André insieme a Gian Piero Reverberi. Fu pubblicata come singolo, la prima volta nel 1967, come lato B, nel 45 giri Via del Campo/Bocca di Rosa, fu inserita lo stesso anno nell'album Volume I.
La canzone racconta la vicenda di una forestiera, soprannominata Bocca di Rosa, che, arrivata in treno "nel paesino di Sant'Ilario", con il suo comportamento passionale e libertino («c'è chi l'amore lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, Bocca di Rosa né l'uno né l'altro, lei lo faceva per passione»), ne sconvolge la quiete. Nel giro di poco tempo la donna viene presa di mira dalle donne del paese, «cagnette a cui aveva sottratto l'osso», le quali, non tollerando la condotta della nuova arrivata, ed anche e soprattutto il fatto che i loro mariti preferiscano tradirle per stare con Bocca di Rosa, si rivolgono al commissario di polizia, che manda «quattro gendarmi, con i pennacchi e con le armi» che condurranno Bocca di Rosa alla stazione di polizia e successivamente alla stazione ferroviaria, dove sarà accompagnata sul treno per essere allontanata dal paesino. Alla forzata partenza di Bocca di Rosa assistono commossi tutti gli uomini del borgo, i quali intendono «salutare chi per un poco senza pretese portò l'amore nel paese». La notizia della presenza di un personaggio del genere però si diffonde velocemente («come una freccia dall'arco scocca, vola veloce di bocca in bocca»), tant'è che, alla stazione successiva, la donna viene accolta in modo trionfale e addirittura voluta dal parroco accanto a sé nella processione.


La Canzone di Marinella è ispirata all'omicidio di Maria Boccuzzi avvenuto il 28 Gennaio 1953. La canzone, pubblicata nel 1964, venne resa celebre da una interpretazione di Mina del 1967.
Ecco come De Andrè commenta la canzone in un'intervista del 1969:
Non considero la canzone di Marinella nè peggiore nè migliore di altre canzoni che ho scritto. Solo che le canzoni si distinguono in fortunate e sfortunate. Probabilmente il fatto che Marinella facesse rima con parole come bella, come stella l'ha resa più fortunata di altre.
In un'intervista con Vincenzo Mollica, racconta invece l'episodio a cui è ispirata:
[la canzone di marinella] É nata da una specie di romanzo familiare applicato ad una ragazza che a 16 anni si era trovata a fare la prostituta ed era stata scaraventata nel Tanaro o nella Bormida da un delinquente. Un fatto di cronaca nera che avevo letto a quindici anni su un giornale di provincia. La storia di quella ragazza mi aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte.
Sono legato a questa canzone perché, indipendentemente dal suo valore, trovo che ci sia un perfetto equilibrio tra testo e musica, diciamo che sembra quasi una canzone napoletana scritta da un genovese. Nel momento in cui Mina negli Anni Sessanta cantò 'La canzone di Marinella' determinò anche la mia vita. Scrivevo canzoni da sette anni, ma non avevo risultati pratici e quindi avevo quasi deciso di finire gli studi in legge. A truccare le carte è intervenuta lei cantando questo brano; con i proventi SIAE decisi di continuare a fare lo scrittore di canzoni e credo sia stato un bene soprattutto per i miei virtuali assistiti.


Il primo brano, di Fabrizio De André (1981) dotato di un ritmo blues. Il pezzo è scandito dallo shuffle di una chitarra elettrica e accompagnato dall'armonica a bocca.
Quello che non ho”, traccia d’apertura dell’ album senza titolo (verrà poi ribattezzato “Indiano”) del 1981 di Fabrizio De Andrè, è un vero e proprio manifesto contro il consumismo. In apertura, sui suoni di una caccia, s’inserisce una chitarra e l’indiano d’America protagonista del brano comincia a spiegare la diversità tra l’uomo bianco che ha sterminato la sua razza e il suo popolo che, fieramente, non ha mai accettato il compromesso di dimenticare la propria cultura; il messaggio chiave è contenuto nel verso in cui viene espressa, attraverso una frase densa di significato (“quello che non ho è quel che non mi manca”), la convinzione che è più importante apprezzare ciò che si ha, piuttosto che piangere su quel che non c’è. Questo modo di pensare è radicato profondamente nella cultura indiana dove il concetto di “ricchezza” assume una valenza umana, scollegata dal possesso materiale e profondamente rispettosa nei confronti del mondo naturale. Faber e il coautore Massimo Bubola, presero spunto, per la composizione della canzone, dalle considerazioni di un sociologo che aveva evidenziato come un bambino di cultura occidentale possedesse circa mille oggetti, mentre un fanciullo navajo ne aveva meno di venti e molto probabilmente conduceva un’esistenza più felice poiché non avvertiva il bisogno d’altro.
La lista di “quello che non ho”, stilata dall’indiano nel testo della canzone permette di mettere a fuoco quel che veramente conta e di sottolineare con un velo di malinconia come alcune delle cose che non mancano siano proprio quelle che hanno determinato la perdita di libertà del suo popolo; nel mondo “perfetto”, prima della venuta dei bianchi “civilizzatori”, agli indiani non servivano armi o bei discorsi per “conquistare il cielo e guadagnarsi il sole” e, soprattutto, non erano necessarie camicie immacolate, conti in banca, la furbizia del “farla franca”, gli intrallazzi fraudolenti (“le mani in pasta”) o altre storture del genere introdotte dagli occidentali: per una cultura sviluppatasi per secoli in un rapporto armonico con la natura, il falso progresso “bianco” era superfluo e dannoso. Nel finale del brano, grazie ad un suggestivo e affascinante gioco sonoro, l’atmosfera richiama alla mente le sconfinate praterie americane e si tinge di tristezza con la constatazione conclusiva del protagonista che è stato privato dei suoi spazi (sottrattigli dai colonizzatori) dove poteva “correre più forte della malinconia”. L’imposizione forzata dell’omologazione culturale perpetrata dai “visi pallidi” attraverso atroci massacri e violenze, cancellando i valori fondanti di questi popoli, ci ha distaccato profondamente dalla naturalità della nostra origine comune: per questi motivi, anche io, come l’indiano, vorrei un “treno arrugginito che mi riporti indietro da dove son partito”….
Ivan Corrado



Una canzone contro la guerra sullo sfondo di una storia di amore omosessuale.
L'interpretazione più comune della canzone è che il soldato morto non sia Andrea ma il suo amato come spiega Wilco su "it.fan.musica.de-andre":
L'amore di Andrea , "riccioli neri", muore combattendo per la propria patria e Andrea apprende la notizia leggendo il foglio con "la firma di re". Se analizzi il testo, "Andrea l'ha perso, ha perso l'amore" indica che il ragazzo morto (il soldato) non è Andrea bensì il suo innamorato (allora i soldati-donna non c'erano ancora), tesi confermata dal verbo che Fabrizio usa nel verso successivo ,"Andrea ha ", quindi Andrea non è morto ma vivo e soffre per la tragedia che l'ha sconvolto ( "s'è perso").
Andrea disperato raggiunge un pozzo e dopo aver gettato di esso una ciocca dei riccioli neri che il suo amore gli aveva lasciato prima di partire (quando presumibilmente dovette tagliarsi i capelli) si suicida buttandosi in fondo al pozzo ("signore il pozzo è profondo/ mi basta mi basta che sia più profondo di me").

La città vecchia
A ritmo di mazurca, De André racconta frammenti di vita di quello strano popolo dimenticato che vive presso le aree più malfamate della zona del porto di Genova, «nei quartieri dove il Sole del buon Dio non dà i suoi raggi». Si tratta di personaggi cari al cantautore: vecchi ubriachi che sfogano i loro dispiaceri nel vino, prostitute e loro clienti (che di giorno le insultano e di notte le frequentano), ladri, assassini e «il tipo strano, quello che ha venduto per tremila lire sua madre a un nano».
La morale finale è un po' la summa del pensiero di De André:
«Se tu penserai, se giudicherai
da buon borghese
li condannerai a cinquemila anni più le spese.
Ma se capirai, se li cercherai
fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo»

La canzone dell'amore perduto è una canzone scritta da Fabrizio De André, fu pubblicata come singolo, la prima volta nel marzo del 1966, come lato A, nel 45 giri La canzone dell'amore perduto/La ballata dell'amore cieco (o della vanità).
«Molte delle canzoni che ha scritto sono reazioni a momenti particolari vissuti in famiglia o fuori. Amori andati a male, amori finiti. Uno qualunque certe cose se le trascina dentro, lui ha questa genialità di riportarle nei suoi pezzi. "La canzone dell'amore perduto" l'ha scritta quando i giochi tra noi erano ormai fatti. Le cose andavano male, ma abbiamo continuato a vivere insieme perché ci volevamo ancora bene»
La canzone dell'amore perduto è ispirata alla biografia di De Andrè; in particolare la storia dell'amore ormai finito fra lui e la sua prima moglie Enrica Rignon.
«L'amore che strappa i capelli
è perduto ormai,
non resta che qualche svogliata carezza
e un po' di tenerezza»
E anche se il protagonista rimpiangerà la fine della passione, ma la vita va avanti e ci sarà sempre un'altra possibilità di un amore nuovo.
«Ma sarà la prima
che incontri per strada che tu
coprirai d'oro,
per un bacio mai dato
per un amore nuovo»

Amore che vieni, amore che vai è una canzone scritta da Fabrizio De André; fu pubblicata per la prima volta nell'aprile del 1966, come lato B, nel 45 giri Geordie/Amore che vieni, amore che vai.
Nelle sue canzoni De André amava parlare dell’amore nei vari aspetti. Nella canzone di Marinella si parla di un amore immaginato e mai realizzato, nella canzone dell'amore perduto il poeta racconta come un amore finisce. In Amore che vieni, amore che vai si parla della caducità del sentimento e della mutevolezza dell'amore, la sua contraddittorietà:
«io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai;
amore che vieni, amore che vai»
La canzone “Fiume Sand Creek” di Fabrizio De André: si tratta del singolo facente parte dell’album “Fabrizio De André”, pubblicato nel luglio 1981 e certificato con ben tre dischi di platino per le oltre 300 mila copie vendute.
In “Fiume Sand Creek” il cantautore genovese racconta una storia vera, ossia quella del massacro di Sand Creek del 29 novembre 1864, dove un accampamento di più di 600 nativi americani appartenenti alle tribù Cheyenne e Arapaho fu attaccato da parte del 3° Reggimento dei volontari del Colorado, guidato dal colonnello John Chivington. Il bilancio delle vittime fu incerto; probabilmente i morti furono più di 150, di cui ben due terzi donne e bambini.
La vicenda è raccontata attraverso gli occhi di un bambino indiano coinvolto in questo brutale massacro. L’aspetto interessante è che il brano si apre esponendo l’epilogo della vicenda, utilizzando parole strazianti che mettono in luce in maniera chiara ed evidente l’atrocità e l’efferatezza di questo evento.
La maggior parte degli uomini indiani adulti era lontana dall’accampamento, poiché impegnata nella caccia ai bisonti, vera e propria fonte di sostentamento per l’intera tribù; nel frattempo, però, l’esercito guidato dal colonnello Chivington era sempre più vicino.
Successivamente, pertanto, il giovane protagonista chiude gli occhi e, spaventato, si rivolge al nonno per ricevere rassicurazioni: “chiusi gli occhi per tre volte, mi ritrovai ancora lì. Chiesi a mio nonno: è solo un sogno? Mio nonno disse sì”. Da queste parole emerge, da un lato, la saggezza del nonno, che è in grado di rassicurare il nipote, nonostante ci si trovi di fronte a un’imminente tragedia; dall’altro lato, invece, la fiducia sconfinata del nipote nei confronti del nonno stesso.
Ma, purtroppo, non si tratta di un semplice sogno, bensì di una vera e propria realtà: “sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso. Il lampo in un orecchio, nell’altro il paradiso. Le lacrime più piccole, le lacrime più grosse. Quando l’albero della neve fiorì di stelle rosse”. Il giovane indiano continua a credere alle parole del nonno, immaginando che si tratti solamente di un brutto sogno. Il sangue dei compagni che schizza ovunque, nell’immaginario del bambino, si trasforma in un albero della neve fiorito di stelle rosse.



Via del campo era, ai tempi in cui fu scritta, una tra le vie più povere e degradate di Genova, città natale di De Andrè. Qui vivevano i ceti sociali più bassi, le prostitute. De Andrè descrive la prostituta con parole nobili. La donna, visti i riferimenti naturalistici di De Andrè, che nei suoi brani ha sempre scandito le stagioni della vita, sembra essere così nel fiore degli anni.
La canzone è ambientata in via del Campo: una strada, tra i carruggi della città natale dell'autore, di amori mercenari, di illeciti commerci e di poesia che avrebbe ispirato molti dei suoi capolavori: Princesa, Crêuza de mä, Bocca di Rosa...
Nella canzone ci sono delle istantanee su alcuni personaggi: «una graziosa che vende a tutti la stessa rosa» sull'uscio del bordello, «una bambina» che rappresenta la speranza in mezzo al degrado ed un illuso che viene da altri ambienti, tuttavia crede di potersi maritare con quella «puttana», per impadronirsi di quel «paradiso che era solo lì al primo piano», ma lei non cambierà mai la sua vita.
“Geordie” è una canzone del 1966 di Fabrizio De Andrè, anche se la maggior parte dei ragazzi la conosce grazie alla famosissima cover creata da Gabry Ponte che nel 2020 riscosse un enorme successo in Italia, diventando in poco tempo disco d’oro viste le numerose copie che vendette tale singolo.
Nella versione di De Andrè, Geordie è un ragazzo che ha meno di 20 anni. Ha rubato sei cervi nel parco del re per venderli. La donna che implora è la madre del ragazzo e il centrale della canzone è la legge.
La legge prevede la morte per impiccagione per questo reato e la madre non la contesta. Osa solo chiedere che, in nome della giovinezza del figlio, venga eseguita quando sarà più vecchio. Gli stessi sovrani si commuovono per la sua preghiera, ma “la legge non può cambiare”.
L’unica cosa che possono graziosamente concederle è che il figlio venga impiccato con una corda d’oro: “è un privilegio raro”. De Andrè quindi, magari rielaborando un testo preesistente, lo elabora in modo tale da farne come sempre motivo di riflessione: la legge nella sua… impassibile assolutezza può essere fredda e crudele e chi detiene il Potere è incapace di pietà, se non in manifestazioni che appaiono involontariamente beffarde. La corda d’oro, per chi vive nel lusso, appare assurdamente un omaggio lusinghiero a chi pur viene ucciso.
La ballata dell'amore cieco - brano di F. De Andrè interprete Botticelli Rocco
Il brano narra la tragica storia di un «uomo onesto, un uomo probo» che si innamora follemente di una femme fatale di chiara ispirazione baudelairiana, la quale non lo ricambia e come prova d'amore prima gli impone di uccidere la madre portandole il suo cuore e poi di tagliarsi le vene e quindi di morire. Tuttavia la donna, quando si accorge che il poveretto muore felice, è presa da sconcerto, perché il suo vanitoso atteggiamento di superiorità le si rivolge contro: lui spira contento e innamorato, mentre a lei non resta nulla, «non il suo amore, non il suo bene, ma solo il sangue secco delle sue vene». In tal modo De André esce dal canone, dal topos letterario, mostrando anche l'umana fragilità del personaggio.
Il testo drammatico e le scene forti stridono con irriverenza con l'allegro ritmo di swing della musica, con tanto di un «tra-la-la-lalla, tra-la-la-leru» degno di una gioiosa filastrocca.
D' altra parte, questa caratteristica dell' amore, di essere cieco, sembra essere vicina alla sua essenza. Infatti l' amore non guarda al proprio tornaconto, altrimenti non é amore ma interesse. In un modo paradossale, la canzone propone una vecchia tesi: cioé che sia preferibile amare che non essere amati.
Insomma, la canzone ci avvisa della potenza dell' amore, ci ammonisce a non abusare della nostra posizione di essere amati, e ci incoraggia a riconoscere la felicitá che possiamo sperimentare nell' amare anche a costo di soffrire noi stessi.

Nel sogno Maria racconta la storia di un angelo che come ogni sera la teneva compagnia:
“l'angelo scese come ogni sera
ad insegnarmi una nuova preghiera.”
E, siccome si tratta di un sogno, narra una serie di immagini surreali:
“le mie braccia divennero ali,
corsi a vedere il colore del vento,
volammo davvero sopra le case
scendemmo là, dove il giorno si perde
a cercarsi da solo, nascosto fra il verde”.
A questo punto l'angelo annuncia il concepimento:
“e lui parlo come quando si prega,
ed alla fine d'ogni preghiera,
contava una vertebra della mia schiena.”
Il sogno, a questo punto, comincia pian piano a svanire. Ormai “ridata al presente”, in Maria risuona il ricordo indelebile delle parole dell'angelo: “Lo chiameranno figlio di Dio.” Le uniche parole che le rimangono chiare nella mente, e “impresse nel ventre”: [...]
“Sbiadì l'immagine, stinse il colore,
ma l'eco lontana di brevi parole
ripeteva d'un angelo la strana preghiera
dove forse era sogno, ma sogno non era,
– lo chiameranno figlio di Dio –;
parole confuse nella mia mente,
svanite in un sogno ma impresse nel ventre.”
Il fatto che il sogno comincia con l'angelo che scende per insegnare a Maria “una nuova preghiera” e finisce con l'emozione di fine preghiera (“ed alla fine d'ogni preghiera, contava una vertebra della mia schiena”) può essere letto come a voler indicare che l'ultima preghiera di Maria è quella di dar vita ad una speranza, una possibilità di liberazione. Suo figlio, Gesù, ne è, di conseguenza, il simbolo, l'incarnazione. Maria quindi, proprio in virtù del fatto che le è sempre stato negato il diritto all'autonomia personale, diventa la genitrice della rivolta e della speranza nella liberazione.
Il brano “Il sogno di Maria”
è tratto dall’album la buona novella di F. De Andrè.
La guerra di Piero è dunque una vicenda metastorica e quando il giovanissimo De Andrè racconta di Piero, si riferisce più in generale a tutti i soldati morti, sotto qualsiasi bandiera e in ogni tempo, per una causa che non li riguardava, per volere di altri.
L’umanità di Piero accompagna l’intero svolgersi della storia, e ne diventa anzi l’argomento principale, spingendo in secondo piano i più truci fatti bellicose. Le sue emozioni, i suoi pensieri e le sue paure, sono i veri protagonisti. Il momento della morte non viene raccontato con macabre immagini sanguinolenti, bensì attraverso i suoi ultimi pensieri, dedicati a Ninetta, la sua compagna, assegnando all’amore il primato sulla morte.
La Guerra di Piero non può assolutamente essere considerata una canzone dai contenuti politici, perchè l’empatia di Faber per le “vittime della società”, nella fattispecie i soldati mandati alla morte, è un’emozione che supera qualsiasi contesto, storico o, appunto, politico.
La tematica della guerra non deve dunque ingannare, La guerra di Piero, al pari delle altre, è una canzone perfettamente in sintonia con la poetica del cantautore, sempre rivolta al più debole di turno.
La forma narrativa è quella delle filastrocche, basata quindi su mutevoli immagini e situazioni.
Il gioco della carta da girare è riferita ai tarocchi e la tiritera (volta la carta) è tratta da un'antica rima popolare genovese
«A morte a scure a gente
vorta la carta
e se vedde ciu niente.»
Da un'altra filastrocca tradizionale vengono estrapolati alcuni altri versi con rispettive immagini di carte La donnina che semina il grano, volta la carta e si vede il villano.
Poi è la volta della filastrocca di Madama Dorè e della canzone tradizionale del Trentino Oi Angiolina bell'Angiolina. De André e Bubola nel finale mescolano un po' le carte per cui Angiolina si innamora di un carabiniere (come Gina Lollobrigida in Pane, amore e fantasia) e di un ragazzo straniero e alla fine si abbandona alle illusioni e ai desideri:
«Ritaglia i giornali
si veste da sposa, canta vittoria
chiama i ricordi col loro nome
volta la carta e finisce in gloria.»

